colonialismo sanitario

Ho letto su Internazionale della recente pubblicazione di un libro di una fotografa indiana che m’ha fatto tornare in mente un articolo, letto sempre su Internazionale, di qualche tempo fa.
Breve riassunto: i ricercatori di una casa farmaceutica multinazionale stavano sviluppando nuovi farmaci per curare l’ictus cerebrale e hanno ben pensato di utilizzare gli abitanti di alcuni villaggi rurali indiani. I medici (indiani) che hanno accettato di partecipare – sedotti anche dagli stipendi che vanno ben oltre le loro normali prospettive di guadagno – selezionando i pazienti (spesso analfabeti e quindi scarsamente capaci di intendere a cosa andavano a sottoporsi) si sono presto trovati di fronte ad un dilemma etico: che senso ha arruolare pazienti per uno studio finalizzato a curare patologie che non hanno rilevanza in quel contesto (nell’India contadina si muore di malattie infettive – tranquillamente curabili nel primo mondo industrializzato – o di malnutrizione, raramente si muore di ictus cerebrale) quando con quei soldi si potrebbe far qualcosa di veramente utile combattendo seriamente le patologie tipiche della regione migliorando realmente la qualità di vita della gente locale (e non dei ricchi occidentali che, forse, grazie a questa delocalizzazione della sperimentazione troveranno in farmacia un altro farmaco utile per i loro problemi di salute)?
Il giornalista sottolineava inoltre che la delocalizzazione della ricerca scientifica/farmaceutica nasce anche dal problema di trovare volontari, nei paesi occidentali, che si sottopongano alle sperimentazioni farmaceutiche autorizzate dagli enti preposti: quale soluzione migliore che fare la sperimentazione low-cost e con minori complicazioni legali in un posto in cui la vita ha un prezzo minore e magari chi si sottopone agli esperimenti non capisce bene a quali rischi potrebbe andare incontro?
Il video di presentazione dell’opera di Dayanita Singh


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Steidl 2008

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