Il tempo di morire

Che deve fare un medico quando non c’è più niente da fare?
La medicina moderna dispone di cure molto efficaci per prolungare la vita delle persone.
Ma non sa affrontare la loro morte, scrive Atul Gawande.
E’ sempre interessante leggere il professor Gawande: l’articolo è su internazionale di questa settimana (n° 871 – 5 / 11 novembre 2010) e, on line, sul sito del New Yorker (in inglese, ovviamente).

Leggete anche il bel libro di Carl-Henning Wijkmark che suggerisco in questo altro articolo.

10 commenti su “Il tempo di morire

  1. Non arrendersi mai e il mio modo di pensare, a volte la volontà di essere ancora può prolungare la proria esistenza.. non e ovviamente un parere della medicina.. ma forse ci vuole anche la fede.. serena giornata Rebecca

    1. e riguardo alla fede si torna all’articolo già pubblicato . . .
      personalmente non ho un’idea chiara, men che meno so di poter dire, con certezza, oggi cosa vorrei mi succedesse in quel momento!

  2. Voglio chiaccherare con te la prossima volta che ti vedo, dottore! Ora stiamo affrontando questa situazione in casa a Boston dove sono in questo momento. A me mi e’ piaciuto molto l’articolo, ma e’ una cosa molto difficile per gli Americani da capire in generale.

  3. Grazie per la segnalazione, quell’articolo mi era sfuggito! Forse l’unica cosa da fare è parlarne, con amici e parenti, cercando di capire, in maniera razionale, quando ancora il problema non si è manifestato, quali sono i desideri e le aspettative di tutti. Mi inquieta un po’ l’atteggiamento dei medici che, molto umanamente, tendono ad essere ottimisti circa i risultati delle terapie; quanto l’atteggiamento del paziente e dei suoi congiunti li influenza?

  4. tanto, mia cara Annika, tanto
    parlo per esperienza personale: dire a qualcuno, un tuo paziente X (non necessariamente l’affezionato paziente che conosci da tempo) che deve morire e che la cosa accadrà a breve non è facile e non è bello
    quindi la naturale tendenza è, magari, ad ammorbidire un pò: far capire che si, la situazione è seria, ma c’è qualcosa da fare, c’è qualche speranza . . .

  5. Però il medico è la persona più preparata. E in molti casi l’unico che può fornire un’alternativa, un’alternativa per quello scampolo di vita che ti rimane: 6 mesi in terapia intensiva o 2 a casa?
    Facile e bello non lo sarà mai ma io tenterei di renderlo sereno 🙂

  6. brava, tu !!
    e lui ?
    e lei ?
    e, nel tempo l’idea rimarrà quella ?
    e sopratutto, io dico: se non informiamo correttamente e, magari, eccediamo di ottimismo nel far balenare una speranza, sia pur minima avremo fatto un buon servizio ?
    o magari sarebbe stato meglio esser duri facendo capire che non c’è speranza alcuna e che, comunque, non puoi prevedere con sicurezza quanto sereno sarà l’iter finale
    in questo, come al solito, l’ottimo Gawande concretizza con grande finezza i problemi, pratici, ed i rischi dell’accanimento terapeutico
    e, ricordati, che i medici sono dei praticoni ovvero s’impara sul campo: non esiste, attualmente, un insegnamento, nel corso di laurea, che ti aiuti a relazionarti con il paziente (sia normale sia terminale): è tutto lasciato all’iniziativa ed alla elaborazione emotiva del singolo . . .

  7. Ognuno dovrebbe poter scegliere, mi pare ovvio.
    Poi non si tratta di essere più o meno duri ma di trasmettere al paziente più informazioni possibili, illustrandogli degli “scenari”. In questo il mio “medico ideale” 🙂 dovrebbe essere sereno. Mi sembra grave (non lo sapevo) che ai medici, non vengano fornite informazioni su come relazionarsi col paziente o con i congiunti (penso a chi comunica l’esito negativo di un’operazione, ad es.), soprattutto per il benessere psicologico del medico.

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