il diritto di non curarsi

Deve essere riconosciuto al paziente “un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita”. Lo ribadisce la Cassazione con una sentenza della terza sezione civile che, solo di riflesso, può essere accostata al caso di Eluana Englaro, la ragazza in coma vegetativo da 16 anni. Solo di riflesso perché la sentenza di piazza Cavour riguarda il caso di un testimone di Geova che chiedeva il risarcimento dei danni morali e biologici perché i medici, all’ospedale di Pordenone, gli avevano praticato una serie di trasfusioni di sangue nonostante egli avesse attestato il suo no per motivi religiosi, con un cartellino con scritto ‘niente sangue’. Nel caso in esame la Cassazione, che ha respinto il ricorso di Mirco G. ha sostenuto che i medici hanno fatto bene a fare le trasfusioni al paziente giunto in ospedale in fin di vita. In ogni caso, Piazza Cavour mette nero su bianco che “nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata”. E questo perché un conto “è l’espressione di un generico dissenso a un trattamento in condizioni di piena salute, altro riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita. In quest’ultimo caso, ricorda la Suprema Corte, “è innegabile l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”. Venendo al caso in questione, la Suprema Corte sottolinea che il “sibillino ‘niente sangue’ vergato su un cartellino”, non può essere considerato come consenso informato di rifiuto alle cure visto che il paziente testimone di Geova era arrivato all’ospedale “in stato di perdita di conoscenza e in pericolo di vita”. Diversamente ragionando, scrive piazza Cavour, “significherebbe che sul medico curante graverebbe il compito (invero insostenibile) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale ‘resistenza’ delle sue convinzioni religiose a fronte dell’improvviso, repentino, non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue”. In definitiva, piazza Cavour ricorda che “come la validità di un consenso preventivo a un trattamento sanitario non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, così l’efficacia di uno speculare dissenso ‘ex ante’, privo di qualsiasi informazione medico terapeutica, deve ritenersi altrettanto impraticabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo scientemente”. E questo perché, ribadisce la Cassazione, un conto è “l’espressione di un generico dissenso a un trattamento in condizioni di piena salute”, un altro “è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita”.

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